Valutando l'importanza di Pirandello, attento alla storia, coltissimo, accorto lettore, alla luce delle critiche crociane e non, Sciascia diventa un paladino della giustizia contro chi vide nello scrittore agrigentino un fenomeno di moda, effimero. Nei saggi, infatti, si legge il tentativo (debitore in parte a Gramsci) di liberare Pirandello dal pirandellismo, ovvero dalle stanze filosofiche entro cui, forzatamente, lo scrittore di Girgenti è stato spinto e rinchiuso. Per farlo, l'autore del "Candido" volge lo sguardo alla panoramica degli studi critici su Pirandello e sulle discordie tra i diversi intellettuali. Un occhio particolare è rivolto a Tilgher e alla sua "scoperta" di Pirandello e del pirandellismo.
Le riflessioni iniziano di solito partendo dalle critiche già registrate sul valore e la grandezza di Pirandello. Tramite esse Sciascia cerca di fare il punto e di correggere storture e imprecisioni. Il quinto saggio, il meno accademico, è quello che preferisco. Sciascia si lascia andare alle parole, appoggiandosi quasi solamente alle espressioni di Pirandello. Ne viene fuori una commovente apologia pirandelliana…
Le pagine sono secche (come nello stile sciasciano), ben strutturate, mai pedanti. Non mancano, e non poteva essere altrimenti, sguardi sul carattere della Sicilia e dei siciliani. La Sicilia che il racalmutese dipinge è spesso debitrice di quella dell'agrigentino. E le riflessioni sciasciane, nonostante la passione verso l'opera pirandelliana, trascendono il suo essere siciliano e allo stesso tempo vi si imbevono. Il legame tra la terra e l'opera, per entrambi, è un legame fortissimo ed è per questo che Sciascia, con la sua profonda sicilitudine, è un maturo critico dell'opera pirandelliana.
In breve: saggi non sfolgoranti, ma impegnati, profetici, giustizieri.
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