"Vedendo sì di rado creature umane, diedi retta ad alcune formiche che venivano sulla mia finestra, le cibai sontuosamente, quelle andarono a chiamare un esercito di compagne, e la finestra fu piena di siffatti animali. Diedi parimenti retta ad un bel ragno che tappezzava una delle mie pareti. Cibai questo con moscerini e zanzare, e mi si amicò sino a venirmi sul letto e sulla mano e prendere la preda dalle mie dita"
Negli anni della Restaurazione, negli anni dei moti per la libertà, un uomo, tra i moltissimi, fu costretto al carcere per circa dieci anni. Era il 13 ottobre 1820 quando fu arrestato a Milano, l'1 agosto 1830 quando fu scarcerato a Spielberg; un’eternità. Dieci anni dunque, dieci anni di desideri, di ricordi, di sofferenze, di noie, di speculazioni, di immaginazione. Quell'uomo, l'autore già celebre della "Francesca da Rimini", in uno sfogo appassionato e romantico, rovesciò nelle pagine di quello che sarebbe divenuto il suo capolavoro tutta l'amarezza della prigionia e tutto il coraggio dettato dalla fede. La cronaca diviene a tratti meticolosa, la sottile denuncia politica antiaustriaca è con acutezza celata e il carattere memorialistico dell'opera, nonostante le ovvie modestie delle vicende narrate, incuriosiscono. Pregevole per l'epoca l'analisi introspettiva, e la scoperta del valore del dubbio, delle debolezze umane sono apprezzabili appigli da cui iniziare le riflessioni.
Pellico ha diversi problemi da affrontare nei durissimi anni di carcere. Alcuni sono ordinari e quasi ridicoli (ma curiosi e dilettevoli, come ad esempio il problema delle zanzare o del caldo), altri invece sono più viscidi e logoranti. Ma il piemontese ha delle armi con sé: le speculazioni filosofiche, i ricordi, l'immaginazione sono potenti, ma alle volte insufficienti, per combattere le stanchezze del tempo e le noie della solitudine.
Purtroppo gli eccessivi richiami alla fede e alla religione, il fortissimo spirito religioso, disturbano non poco chi non vede in esse le sole ragioni di consolazione e di senso. L’anima romantica dell'autore, che oggi quasi non impietosisce, alla lunga distrae, mentre i grotteschi sospiri, le lamentele e i pianti determinano un insopportabile senso di nausea.
Alla luce di quanto scritto, mi viene in mente una domanda. Ha senso oggi leggere un'opera del genere? Il capolavoro dello scrittore piemontese è dunque attuale? Ritengo che si possa ancora adesso leggere e apprezzare non solo come documento storico, come affresco del sentire di un'epoca di lotte e di aspirazioni di libertà (per questi motivi si potrebbe leggere pure dell'altro...), ma come opera realmente fresca perché è dell'uomo, in fondo, che si parla: delle sue paure, delle sue angosce, dei suoi dubbi, delle sue sconfitte, delle sue vittorie; perché anche ora si cerca e si perseguita un'idea di libertà.