Presentazione


Presentazione

Questo spazio è dedicato agli appunti, alle briciole di recensione irrazionali, che colgo, da lettore appassionato e spesso rapsodico, nei miei viaggi verso la lentezza e la riflessione. Briciole di recensione irrazionali dunque.

Briciole perché sono brevi, a-sistemiche, frammentarie, come un certo spirito moderno pretende. Non sono delle vere recensioni. Queste hanno uno schema e una forma ben precisa, mentre i miei sono più che altro appunti colti sul momento, associazioni d’idee, giudizi dettati dalle impressioni di un istante, da una predisposizione d'animo subitaneo, da un fischio di treno... E perciò li definisco irrazionali. Perché sfuggono da un qualsiasi schema predefinito, perché sono intermittenti, perché nella scelta di un libro, per via di una congenita voracità, spesso non seguo linee e percorsi definiti dalle letture precedenti, ma mi lascio trasportare dagli ammiccamenti o dalle smorfie di sfida che un libro sulla mensola della libreria mi lancia.

È un modo insomma di coltivare, di giocare, di prendere vanamente in giro la memoria, per conservare, catalogare e archiviare frammenti di ricordi e suggestioni che un giorno, magari, potranno farmi sorridere e, perché no, commuovere.

30 ago 2010

Il giudice e il suo boia - Friedrich Dürrenmatt (Romanzo - 1952)

"La tua tesi era questa: che l'imperfezione umana, il fatto che le azioni degli altri non sono mai del tutto prevedibili e che del resto non possiamo mai, nei nostri calcoli, tener conto del caso, il quale tuttavia ha la sua parte in tutto, fosse il motivo per cui la maggior parte dei delitti vengono immancabilmente in luce. Dicevi che era una sciocchezza commettere un delitto, perché ti sembrava impossibile usare la gente come le pedine degli scacchi"

Barlach, anziano, malato e sicuro di una prossima morte (ricorda Sciascia, vero?), indaga senza grandi afflizioni d'animo sull'omicidio di un collega. Il caso, la fortuna, sembra indurre l'ispettore nella direzione investigativa giusta. Eppure questo caso, l'evento fortuito che precipita giù dal cielo quando meno te lo aspetti, si scontra con le macchinazioni investigative che il vecchio ispettore architetta contro il suo sospettato. E non è un caso che il termine 'caso' ricorra numerose volte nel racconto, a rilevare l'importanza simbolica e filosofica del metodo inquisitivo di Barlach/Dürrenmatt.
Ovviamente il racconto è ricco di dialoghi dai quali si delineano più i particolari psicologici dei personaggi che gli indizi e i sospetti sul presunto omicida. Il vecchio Barlach, ad esempio, è cauto, non ha fretta; sembra calcolare i tempi e le azioni con precisione. Oscilla tra una visione del mondo indeterminata, se non dall’accidente, e una volontà d'azione che lo porterà a calcolare ogni dettaglio per la vittoria finale. E' pure poco attento ai dettagli ma, nonostante le sue idee sull'importanza dell'imprevedibilità, è lui che si pone quale manovratore preciso e cristallino del caso stesso.

Non mancano momenti ironici, dettati soprattutto dall'ingenuità dei protagonisti, non mancano nemmeno sottili seppur acerbe riflessioni filosofiche; ma il romanzo resta un poliziesco. Un morto ammazzato, un ispettore che cerca movente e assassino, un colpo di scena finale. Sarà per dispetto verso certi meccanismi che il poliziesco innesca nella mia mente, sarà perché mi divertono le riflessioni letterarie meno ambigue, più di parte, sarà perché in un romanzo cerco schemi d'intelligenza non solo evasiva, ma questo genere letterario non mi appassiona e stuzzica...

28 ago 2010

L'avvenire di un'illusione - Sigmund Freud (Saggio - 1927)

"Queste [le rappresentazioni religiose], che si presentano come assiomi, non sono sedimenti dell'esperienza o risultati finali del pensiero, sono illusioni, appagamenti dei desideri più antichi, più forti, più pressanti dell'umanità; il segreto della loro forza è la forza di questi desideri"

Al di là di ciò che si pensi della psicanalisi e di Freud, questo saggio, in qualche modo un'appendice che completa 'Totem e tabù', è un piacere leggerlo. L'estrema chiarezza linguistica è espressiva della perfetta padronanza delle sue idee.
In questo breve scritto, Freud si pone delle domande di un’indubbia rilevanza: cos'è la civiltà? quali regole comportamentali la tengono in vita? e soprattutto, la religione che ruolo gioca all'interno di questa forza che ci unisce e ci spinge verso il futuro? Dalla discussione di tali domande, lo scopritore della sessualità infantile ci indica un futuro meno miope, più illuminato, in cui le ragioni e le scoperte scientifiche soppianteranno del tutto il bisogno religioso che ottunde le menti dell'umanità. La religione, l'illusione nella definizione freudiana, sarà costretta a cedere il passo alla verità. Siamo pertanto di fronte a una civiltà che nell'idea del moravo, molto adagio, muta e si perfeziona. La conclusione di siffatta lenta evoluzione risiede nell'inevitabile (e da tempo in atto) conflitto tra intelletto e vita pulsionale, che alla lunga porterà il primo, con la sua caratterizzante pazienza, a prevalere sulla seconda, sulle illusioni, sulla religione. Nel difendere la superiorità delle possibili illusioni scientifiche su quelle religiose, Freud ci lascia qualche breve ma denso appunto di epistemologia.
Curiosa la capacità dell’autore de ‘L’interpretazione dei sogni’ di prevenire le possibili critiche, anticipandole e confutandole nel testo stesso. Nel farlo, Freud si pone di fronte a un obiettore immaginario e risponde alle sue contestazioni. I dialoghi che ne seguono sono notevoli per brillantezza e onestà intellettuale. Per i temi trattati e il modo di proporli, nel cercare le cause del bisogno di rivolgersi ad altro, a divinità superiori, a tratti sembra di leggere Hume o Feuerbach.

Libro illuminista, ottimista, sicuro, annuncia l'inesorabile sconfitta delle religioni dopo le vittorie della ragione, della scienza. Libro profetico o libro di speranze? E' ancora troppo presto per giudicarlo, restano però una forza e un'integrità razionale che difficilmente potranno essere trascurate.

26 ago 2010

L'inconveniente di essere nati - Emile Michel Cioran (Aforismi - 1973)

"Non ho ucciso nessuno, ho fatto di più: ho ucciso il Possibile e, proprio come Macbeth, ciò di cui ho più bisogno è pregare, ma, proprio come lui, non posso dire 'Amen'"

Pensieri notturni, frutti d'insonnie e di incubi angoscianti, gli aforismi di Cioran, scrittore e filosofo profondo e pregevole, denunciano l'insensatezza dell'esistenza con il rigore maniacale dell'estremo pessimismo. L'avversione verso tutto, verso soprattutto l'inutilità, è l'ovvia repulsione verso la vita dell'uomo. L'uomo, infatti, è per il filosofo apolide l'emblema dell'inconcludenza estrema, del non senso. Ma anche Cioran stesso è uomo, e anche lui, in una confessione violenta e drammatica, è vittima dei suoi stessi strali.
L'esistenza, dunque, con tutte le sue sfumature, è al centro di questo capolavoro filosofico e letterario. Questo concetto, dietro cui s’identifica l'uomo e la sua natura, è vivisezionato con freddezza disincantata e terrificante. Ogni suo aspetto, dalla nascita alla morte, dalle passioni agli incontri con altre esistenze, è scomposto e destrutturato al fine di rendere la totalità, l'uomo, un niente nell'universo. Già il titolo annuncia la soluzione al malcontento sommo dell'autore. Accodandosi a una tradizione antica, l'antidoto alla miseria della vita sarebbe stato nel preferire al nascere il non nascere, al vivere il morire, alla consapevolezza l'ignoranza. Il pessimismo rivelato è talmente massimo che porta all'immobilismo, a una forma di pirronismo etico, oggi, inattuale e fuori moda. Un libro quindi contro il più potente dei sensi comuni, contro l'oppiaceo valore supremo della vita.
Dietro tutto ciò si avverte un forte richiamo nietzschiano all'insegnamento buddhista sulla vita come dolore, da contrapporre a quello cristiano di speranza e illusione.
Molti aforismi sono belli da leggere perché prendono spunto da momenti quotidiani e intimi del filosofo. Istanti che folgorano, intuizioni che s'impressionano nelle pietre. Alcuni invece, ma pochissimi, seppur nella loro tragicità, sono ironici e stordiscono per la loro esiguità.

Un libro stupendo, un libro fuori tempo che molti non possono leggere e apprezzare. Un libro per chi nella vita, in estrema sintesi, vede e scova solo insensatezza e vacuità.

24 ago 2010

Il fantasma dell'Opera - Gaston Leroux (Romanzo - 1911)

"Le pareti erano tutte parate di nero, ma al posto dei finimenti bianchi che di solito completano quel funebre ornamento, spiccavano su un enorme pentagramma le note ripetute del 'Dies Irae'. Al centro della camera c'era un baldacchino da cui ricadevano tendaggi di broccato rosso e, sotto il baldacchino, una bara aperta"

Il romanzo di Leroux sembra una rivisitazione in chiave moderna dell'antico mito di Orfeo. Sono numerosi i punti in comune tra il romanzo e il mito della catabasi di Orfeo negl'Inferi. Entrambi, Orfeo ed Erik, sono musicisti, entrambi innamorati, entrambi, alla fine, perdenti. E inoltre non si può non scrivere che in comune, tra l'altro, leggiamo della discesa verso un luogo sotterraneo. Si potrebbe riscrivere il titolo: 'Il fantasma dell'Opera, ovvero l'Orfeo moderno'; come nel 'Frankenstein' della Shelley la rilettura del mito di Prometeo.
La storia assume vivaci tratti polizieschi. Chi è il fantasma dell'Opera? Chi è l’artefice delle stranezze e dei delitti del teatro? Sembra questa domanda il motore del romanzo. E nella ricerca di una risposta, amore e terrore si mescolano fino a esplodere e a esaurirsi in una storia ricca di fascino, ma anche d’insipidezza emozionale e stilistica.
La lettura è appesantita dalla presenza di una caterva di personaggi secondari (almeno nella prima parte della storia) e di piccoli particolari legati al mondo dell'Opera, che se da una parte presentano il racconto minuzioso e nelle intenzioni dell'autore veritiero, dall'altra, forse, resta un po' eccessivo e dispendioso. Pregevoli invece le descrizioni claustrofobiche e goticheggianti dei luoghi del fantasma, del sotterraneo del teatro.
Importante, seppur non originalissima, l'idea della musica quale origine assoluta dell'incanto. Nel capolavoro di Leroux è la musica, infatti, che ammalia, che sconquassa e restituisce personaggi credibili e ormai classici. Christine Daaé, l'eroina, è in balia della seduzione della musica, della straordinaria potenza che esercita su di lei. La musica è potere. Chi ne sa dominare gli arcani è in grado di affascinare: è appunto in grado di dominare. E Christine è posseduta dalle suadenze della musica, ma non è lei che la domina, lei è la vittima, la prigioniera. Il burattinaio, l'ideatore di tutto, è il misterioso fantasma, angelo e mostro, che si rintana tra gli angoli bui e i palchi del teatro dell'Opera. Passioni, cecità, profondità; non vi sembra che in queste parole chiave si annidi una metafora?
Purtroppo è inevitabile che la conoscenza, seppur indiretta, di un classico come questo influenzi la lettura e la non-scoperta e sorpresa degli eventi narrati. Resta il fascino del classico, è vero, ma alcuni limiti della storia (uno su tutti la prolissità) di certo non lo pongono sullo stesso gradino di altri classici del genere.

Definibile come romanzo popolare, come romanzo grandguignolesco, per me resta nella sostanza un romanzo poliziesco ed è probabile che per questo non mi abbia conquistato.

6 ago 2010

La camera chiara - Roland Barthes (Saggio - 1980)

"Dovevo penetrare maggiormente dentro di me per trovare l'evidenza della Fotografia, quella cosa che è vista da chiunque guardi una foto, e che la distingue ai suoi occhi da ogni altra immagine. Io dovevo fare la mia palinodia"

Le riflessioni e le digressioni sulla fotografia, sul suo senso ontologico, la ricerca fenomenologica che diventa introspettiva, sono quasi un pretesto per Barthes di parlare di sé. La Fotografia, nella spiegazione barthesiana, è disordine, è emblema dell'assoluto particolare. Compito del critico francese è quindi quello di darne un significato, partendo proprio dal particolare, da singole foto scelte da lui per il loro valore affettivo ed emotivo. Tra scienza e soggettività dunque. E', come si diceva poc'anzi, l’onesto espediente per sviscerare la sua stessa natura di soggetto in posa, nel caso in cui è 'immortalato' (lo 'spectrum'), o per sviscerare la sua stessa natura di soggetto fruitore di foto altrui (lo 'spectator'). Barthes non è un fotografo (lo 'operator'), ma della fotografia ne subisce il fascino, la spietatezza dell'invadenza, il disordine ossimorico insito nell’universo delle foto. Da critico sottile e raffinato qual era, non poteva pertanto non considerare le ragioni di tale invadenza e per farlo mette a nudo anche suoi ricordi intimi, in un crescendo pure emotivo che rende il libro un piccolo gioiello saggistico.
La digressione, specialmente nella seconda parte del volume, assume un carattere quasi proustiano. Ne sono prova non solo i continui rimandi personali alla figura (e alle foto) della madre, ma anche alla 'Recherche' dello scrittore francese.

Del libretto, corredato da bellissime foto e dal solito e inequivocabile paratesto barthesiano, mi piace l’afflato personale dell'autore. E' attraverso l'esperienza di utilizzatore di foto, non di tecnico della fotografia, che lascia parlare le sue emozioni. Ma tale soggettività non deve ingannare il lettore; il procedimento fenomenologico di Barthes si conclude con valutazioni che possiedono un loro status universalistico e, in qualche modo, obiettivo.
Del resto l'estetica della fotografia deve, per forza di cose, rimandare al singolo.

2 ago 2010

Le mie prigioni - Silvio Pellico (Memorie - 1832)

"Vedendo sì di rado creature umane, diedi retta ad alcune formiche che venivano sulla mia finestra, le cibai sontuosamente, quelle andarono a chiamare un esercito di compagne, e la finestra fu piena di siffatti animali. Diedi parimenti retta ad un bel ragno che tappezzava una delle mie pareti. Cibai questo con moscerini e zanzare, e mi si amicò sino a venirmi sul letto e sulla mano e prendere la preda dalle mie dita"

Negli anni della Restaurazione, negli anni dei moti per la libertà, un uomo, tra i moltissimi, fu costretto al carcere per circa dieci anni. Era il 13 ottobre 1820 quando fu arrestato a Milano, l'1 agosto 1830 quando fu scarcerato a Spielberg; un’eternità. Dieci anni dunque, dieci anni di desideri, di ricordi, di sofferenze, di noie, di speculazioni, di immaginazione. Quell'uomo, l'autore già celebre della "Francesca da Rimini", in uno sfogo appassionato e romantico, rovesciò nelle pagine di quello che sarebbe divenuto il suo capolavoro tutta l'amarezza della prigionia e tutto il coraggio dettato dalla fede. La cronaca diviene a tratti meticolosa, la sottile denuncia politica antiaustriaca è con acutezza celata e il carattere memorialistico dell'opera, nonostante le ovvie modestie delle vicende narrate, incuriosiscono. Pregevole per l'epoca l'analisi introspettiva, e la scoperta del valore del dubbio, delle debolezze umane sono apprezzabili appigli da cui iniziare le riflessioni.
Pellico ha diversi problemi da affrontare nei durissimi anni di carcere. Alcuni sono ordinari e quasi ridicoli (ma curiosi e dilettevoli, come ad esempio il problema delle zanzare o del caldo), altri invece sono più viscidi e logoranti. Ma il piemontese ha delle armi con sé: le speculazioni filosofiche, i ricordi, l'immaginazione sono potenti, ma alle volte insufficienti, per combattere le stanchezze del tempo e le noie della solitudine.
Purtroppo gli eccessivi richiami alla fede e alla religione, il fortissimo spirito religioso, disturbano non poco chi non vede in esse le sole ragioni di consolazione e di senso. L’anima romantica dell'autore, che oggi quasi non impietosisce, alla lunga distrae, mentre i grotteschi sospiri, le lamentele e i pianti determinano un insopportabile senso di nausea.

Alla luce di quanto scritto, mi viene in mente una domanda. Ha senso oggi leggere un'opera del genere? Il capolavoro dello scrittore piemontese è dunque attuale? Ritengo che si possa ancora adesso leggere e apprezzare non solo come documento storico, come affresco del sentire di un'epoca di lotte e di aspirazioni di libertà (per questi motivi si potrebbe leggere pure dell'altro...), ma come opera realmente fresca perché è dell'uomo, in fondo, che si parla: delle sue paure, delle sue angosce, dei suoi dubbi, delle sue sconfitte, delle sue vittorie; perché anche ora si cerca e si perseguita un'idea di libertà.

Archivio blog