Presentazione


Presentazione

Questo spazio è dedicato agli appunti, alle briciole di recensione irrazionali, che colgo, da lettore appassionato e spesso rapsodico, nei miei viaggi verso la lentezza e la riflessione. Briciole di recensione irrazionali dunque.

Briciole perché sono brevi, a-sistemiche, frammentarie, come un certo spirito moderno pretende. Non sono delle vere recensioni. Queste hanno uno schema e una forma ben precisa, mentre i miei sono più che altro appunti colti sul momento, associazioni d’idee, giudizi dettati dalle impressioni di un istante, da una predisposizione d'animo subitaneo, da un fischio di treno... E perciò li definisco irrazionali. Perché sfuggono da un qualsiasi schema predefinito, perché sono intermittenti, perché nella scelta di un libro, per via di una congenita voracità, spesso non seguo linee e percorsi definiti dalle letture precedenti, ma mi lascio trasportare dagli ammiccamenti o dalle smorfie di sfida che un libro sulla mensola della libreria mi lancia.

È un modo insomma di coltivare, di giocare, di prendere vanamente in giro la memoria, per conservare, catalogare e archiviare frammenti di ricordi e suggestioni che un giorno, magari, potranno farmi sorridere e, perché no, commuovere.

27 apr 2011

Biblioteca - Fozio (Recensioni - IX sec. d. C.)

"Anche riguardo alla croce inventa una quantità di scempiaggini e di assurdità; dice che non fu il Cristo a essere crocifisso, bensì un altro al suo posto, e per questo motivo il Cristo schernì i suoi carnefici. Rifiuta poi i legittimi matrimoni e sostiene che ogni procreazione è un male ed è opera del Maligno; farnetica anche di un creatore dei demoni come di un essere a parte, e vaneggia di resurrezioni del tutto incredibili e puerili, che riguarderebbero uomini, buoi e altri animali". 

Rassegna di annotazioni sulle più disparate opere - ci sono recensioni su biografie, testi di letteratura, di teologia, di scienza, di storia -, il 'Myriobiblion', un ‘salvokalat.blogspot’ ante litteram se vogliamo, è un’opera preziosa. Preziosa perché molti dei testi citati sono oggi perduti; preziosa perché si scoprono autori, opere e idee antiche, con l’incanto delle cose perdute, che sono utili a comprendere meglio un periodo storico non del tutto luminoso; e preziosa perché ci aiutano ad afferrare con mano chiusa il fermento intellettuale di quei primi secoli cristiani, le cui lotte durissime tra i sostenitori delle diverse fedi porteranno a un calderone di parole, concetti e assurdità che, ancora bollenti, saranno riversate sui piatti della povera gente. Pietanze che, non completamente cotte, hanno generato nuove irrazionalità e nuovi pretesti per altre infinite e sacre guerre…
Gli scritti (alcuni brevissimi, altri non molto lunghi) ci portano con l'immaginazione lontano nel tempo. Mi viene in mente un uomo coltissimo, con un’eccezionale memoria, che per il fratello annota diligentemente sulla pergamena i suoi appunti sui libri che ha letto. 
In questo già voluminoso volume non sono riportate tutte le 279 schede che il patriarca bizantino aveva redatto, tuttavia sono più che sufficienti a indicarci l'acume dell'autore. Considerato il primo recensore della storia, Fozio dimostra l’ampiezza dei suoi interessi culturali, ed è straordinario ammirare la modernità del libro, almeno per quanto riguarda la sua struttura. Certo, molti codici sono noiosi e pedanti, ma è pur vero che conservano un fascino inspiegabile. Ad esempio, i racconti geografici e storici di paesi lontani assumono una veste fantastica e colorita, anche se i resoconti dei fatti storici nei secoli successivi alla nascita di Gesù sono saccenti e particolarmente lunghi e barbosi. Però alcuni aneddoti sono singolari, e il testo, se letto a singhiozzi, svela tutta la sua magia.
Nel presentare il sunto dell'opera letta, Fozio si abbandona alla critica e ovviamente, e non poteva essere diversamente, si scaglia contro gli eretici e i pagani, e non può non deformare alcuni fatti, né può demistificare alcuni miracoli. Nondimeno l'intelligenza e la cultura del patriarca, che gli permettono di criticare aspramente i testi e gli autori che non sono vicini al suo pensiero, specie se religiosi, al contempo gli consentono anche di discernere il genio e la profondità .
Ogni codice è corredato da note introduttive e, se possono essere utili agli studiosi, sono invitanti per la curiosità del lettore comune. Se si vuole, è un libro per gli studiosi o per gli appassionati di letteratura e storia bizantina, ma non scarseggiano spunti di riflessione e di curiosità per il lettore onnivoro e rapsodico.

E alla domanda se 'val di più la struttura o il contenuto', con convinzione, rispondo: entrambi.

22 apr 2011

Eros e Priapo - Carlo Emilio Gadda (Saggio - 1967)

"La carenza di facoltà critiche, l'assoluta incapacità di documentarsi criticamente, che è propria di certe donne oltreché di moltissimi uomini, lasciò aperto il ricettacolo delle loro psico-fiche riceventi. La dedizione minorile al super-maschio, al padre, al padrone, accolse e introitò il dogma. Il dogma fallico ossia il fallo dogmatico pervenne a depositare nell'utero di talune poverine lo scodinzolante zoo, il germe della certezza canonica".

Lo spietato pastiche, nei contenuti antifascista, antimussoliniano in particolare ('Poffarbacco', 'Bombetta', 'Istrione millantatore', 'Kuce', 'Somaro', 'mentecatto', sono solo alcuni degli appellativi usati per invocare Mussolini), esalta la rabbia dello scrittore milanese che vide nel ventennio il disfacimento dell’Italia. Per Gadda quei ventuno anni furono l'estrinsecazione di un impulso erotico e di un’ignoranza dovute all'assenza del Logos, della ragione. Non mi sembra un caso che nel testo si trovino innumerevoli citazioni letterarie, storiche, filosofiche; hanno di certo lo scopo di marcare la differenza tra la possibilità di critica del Logos contro la meschina riverenza e volgarità dell'Eros e di Priapo, soprattutto. La visione gaddiana del sesso però non è bigotta. L’Eros delineato e caratteristico del duce agisce da solo, istintivamente, e senza Logos non può che portare alla rovina. Un libro epicureo quindi, contro gli eccessi.
Non è facile riuscire a varcare i cancelli dello stile gaddiano, si sa. Ma la furia di questo libro, commista al gioco dell'ironia e dell'amarezza, facilita l'accesso alla terra delle parole dello scrittore. Certo, leggere un contemporaneo che si sfoga con termini e figure linguistiche del '500 non è semplice, eppure basta un poco di pazienza e le parole diventano familiari, le immagini si definiscono, e l'invettiva si illumina di freschezza e di colore. Traboccante di citazioni, molte storiche, abbondano le espressioni latine, i termini greci, non mancano divertenti trivialità, figure retoriche, arcaismi; il saggio ha la forma dell'apostrofe, del trattato filosofico, sociologico, pedagogico. Molto presto però, un po' per lo stile, un po' per il disordine dello sfogo, l’effetto di straniamento diventa greve tra le mani e si è tentati di riporlo nel suo angolo di libreria. Tuttavia, superato l'impatto tentatore del primo disorientante capitolo, l'analisi di Gadda sul perché del ventennio, e sull'antropologia dell'uomo e della donna italici e sulla loro ignoranza, si fa spassosa e vivace. Lo stile si alleggerisce notevolmente e spiccano più di tutto i momenti sarcastici seppur nella loro sofferenza.

Un libro cattivo, furente, tanto quanto nitido l’obiettivo contro cui si scaglia. Non facile però, sonnecchiante e greve a causa di uno stile eccessivo e straniante. 

19 apr 2011

Il piccolo principe - Antoine-Marie-Roger de Saint-Exupéry (Favola - 1943)

"Se vi ho raccontato tanti particolari sull'asteroide B 612 e se vi ho rivelato il suo numero, è proprio per i grandi che amano le cifre. Quando voi gli parlate di un nuovo amico, mai si interessano alle cose essenziali".

Autobiografico negli elementi fondamentali (e anche profetico se vogliamo...), il capolavoro dello scrittore francese è la storia di una vendetta: la rivincita del bambino sui grandi che non hanno voglia di capire la logica estrema e puntigliosa che sta dietro al suo ragionamento. Il bambino, per mezzo della sua immaginazione, è in grado di vedere oltre quel velo di Maya che avvolge la realtà, mentre l'uomo non sa nemmeno riconoscere quel velo. Se gli adulti guardano il mondo solo quando tradotto in cifre, quando esteticamente presentabile, quando strutturato e misurato, se gli adulti sono affezionati ai numeri, sono catalogatori, il bambino scruta il mondo con occhi spontanei e sognanti e lo vede ancora più bello, ancora più ricco, ancora più grande. Nella profondità della sua visione, il bambino scopre, impara e, a differenza dei grandi, si meraviglia. I bambini sono sognatori, avventurieri; i bambini sono artisti.
Forse il racconto è frutto di un sogno, di un'allucinazione dovuta al sole del deserto. Nel Sahara, infatti, a seguito di un incidente aereo, il narratore si trova solo e scoraggiato. È qui che incontra un bambino singolare, il piccolo principe di un asteroide piccolissimo, che è gonfio di domande e di curiosità sulle meraviglie dell’immensa Terra. Il narratore, anche se adulto, non ha però perso il bambino che ha in sé e non si rifiuta di confrontarsi con il piccolo principe, un bambino persino capriccioso se vogliamo, ma anche malinconico, un po' triste. Inizia quindi il favoloso racconto del viaggio del bambino. Dopo aver salutato il suo asteroide, i suoi tramonti e il suo fiore, il piccolo principe su altri asteroidi incontrerà un anziano monarca, dispotico ma ragionevole; un eccentrico vanitoso; un ubriacone; un uomo d'affari; un lampionaio; un geografo: tutti adulti, tutti bizzarri; tutti soli. Sulla Terra inoltre i diversi incontri si fanno buffi e al contempo riflessivi. Animali, fiori, serpenti, tutti personaggi che marcano la differenza di prospettiva e di visione tra il mondo infantile e quello adulto. Il finale, ma non poteva essere altrimenti, con la liberazione dell’anima del piccolo principe, è commovente e profondo. 
Lo stile e lo schema narrativo sono tipici della favola, e la lettura scorre in modo veloce e piacevole. Le illustrazioni dello stesso autore, ingenue ma di un'ingenuità onirica, accompagnano il testo ed esemplificano il racconto con un tocco di grazia e tenerezza. 
I dialoghi tra i personaggi sono ironici e mostrano i paradossi delle pretese degli adulti. Questi, desiderosi di possedere ogni cosa, non hanno tempo per pensare che possa esserci qualcosa di più profondo dei numeri, dei cataloghi, delle regole. Che sia una favola a sfondo religioso?

Un libro per bambini, un libro per gli adulti.

16 apr 2011

H. P. Lovecraft - Michel Houellebecq (Saggio - 1991)

"Fatto tanto più sorprendente in quanto Lovecraft è stato per tutta la vita il prototipo del gentiluomo discreto, riservato e ammodo. [...] Nessuno l'ha mai visto andare in collera; né piangere, né ridere. Una vita ridotta al minimo, da cui ogni forza vitale è stata drenata verso la letteratura e il sogno. Una vita esemplare". 

Biografia disordinata, senza un ordine cronologico; saggio istintivo che sfocia in un omaggio quasi romanzato; alle volte analisi del testo; seppur misero di divertenti aneddoti e curiosità, resta un saggio affascinante e avvincente. La vita, come l'opera, dello scrittore di Providence è intrigante, oscura, intensamente ostile verso la vita. E questi elementi sono tutti descritti sapientemente da Houellebecq. Di quest’ultimo emerge soprattutto la passione verso lo scrittore americano, che però è mantenuta nei limiti della ragione e della lucidità. Il libro è quindi il resoconto di un incontro, l'incontro della scoperta e del successivo spiazzamento che la lettura dei racconti di Lovecraft è in grado di suscitare. È meritevole di attenzione che, sebbene follemente appassionato, Houellebecq non si astenga dal criticare, dove e se è possibile, il grande scrittore americano.
Dal saggio, viene fuori dunque la rappresentazione della filosofia pessimista di Lovecraft, sprovvista di qualsiasi sbocco verso un attimo di positività. Solo l'immaginazione, e quindi il suo velleitario ordinamento per mezzo della scrittura, può sollevarlo dal nulla a cui pensa sia destinata la sua vita e quella dell'intero universo. Ecco che si spiega il sottotitolo del testo: "contro il mondo, contro la vita”. E infatti l'autore francese dà rilievo a un aspetto delicato della figura di Lovecraft: il profondo sdegno verso chi non aveva le sue stesse origini, un’intolleranza tanto estrema da portarlo a immaginare nelle sue storie l'annientamento dell'uomo da parte di mostruose civiltà aliene superiori. Ecco perché il profondo razzismo, l’odio verso il mondo, verso il non senso delle cose, del denaro, del sesso, della vita in tutte le sue sfaccettature.
Grandissimo neo di questa monografia è l'assenza di note e di riferimenti bibliografici. Sarà scritto come se fosse un romanzo, come confessa lo stesso autore, ma resta pur sempre un saggio con tanto di citazioni e riferimenti; grave peccato.
Testo rapsodico, comandato dalla passione e dall'istinto dello scrittore francese. Manca lo spessore della ricerca di approfondimento.

Il volume si chiude con una postfazione di Stephen King. Il breve articolo, rapsodico anch'esso, se ne critica acutamente alcune affermazioni, sostiene le tesi di fondo del saggio di Houellebecq: Lovecraft è uno dei più grandi scrittori americano del XX secolo; Lovecraft, e la letteratura horror e del soprannaturale, affermano un assordante rifiuto della realtà e della vita.

12 apr 2011

François le Champi - George Sand (Romanzo - 1848)

"E quando fu tutto solo cominciò a tremare e a soffocare come se avesse avuto la febbre. In realtà non fu ammalato che d'amore, poiché per la prima volta si sentiva ardere da una grande fiammata, avendola covata tutta la vita sotto la cenere".

Appartenente al ciclo dei "romanzi campestri" - storie che raccontano un ritorno rousseano alla genuinità, all'uomo non macchiato dal progresso e dalla società -, ‘Francois le Champi’ è un romanzo mediocre, come non ne leggevo da tanto tempo.
François il trovatello, un poverissimo bambino di animo semplice e sincero, è aiutato da Madeleine Blanchet, la moglie di un mugnaio che ben presto si disamorerà della moglie. Nasce all'istante un amore profondissimo tra ‘il bambino trovato nei campi’ e Madeleine, la quale, a un tratto (e la velocità delle azioni in questo romanzo è disarmante), diventa la madre adottiva del piccolo. Cresciuto tra la fatica del lavoro e l’amore della madre, ancora adolescente, è costretto dal geloso mugnaio ad allontanarsi dalla casa che l’aveva ospitato. Dopo qualche anno, morto il marito della donna, adesso malata ed economicamente in rovina, i due si ritrovano e si amano quasi senza ostacoli. Fortunatamente per il lettore, questo amore nasconde un'ossessione che, solo alla fine purtroppo, si sfogherà in un vero e proprio incesto; i due protagonisti infatti decideranno di sposarsi.
C'è, forte, qualcosa del vissuto della straordinaria, quanto scandalosa, scrittrice francese. Eppure il romanzo, che può essere definito senza problemi di formazione, non dà pregio a una donna intelligente e trasgressiva come la Sand. Qua e là si infiltra il suo pensiero politico, religioso, sociale (derivato da, come si scriveva, da Rousseau), ma il modo di manifestarlo è così ingenuo che non mi viene nemmeno voglia di spiegarlo.
Sempliciotta è la narrazione, la forma, il dialogo spesso affettato, il sentimento dei protagonisti espresso in uno stile mieloso; allo stesso modo i pretesti che portano alle decisioni o agli eventi che sono sviluppati con banalità e superficialità. Non ci sono profondità né caratterizzazione dei personaggi, gli avvenimenti avvengono senza che se ne capiscano fino in fondo le cause; tutto è in balìa della volontà della scrittrice. Persino il gioco tra gli attori è banale. I personaggi 'positivi', ispirati dalla carità cristiana, sono vittoriosi su quelli 'negativi', su quelli che sui primi pretendono l'assoggettamento. Ma se gli eroi alla fine riusciranno attraverso il dolore a salvarsi, gli antieroi hanno un'unica fine, la morte. Schema, ovviamente, ordinario e dozzinale. Romanzo mediocre insomma. 
Se proprio si deve cercare un elemento interessante del libro, si troverà di certo nel saggio introduttivo di Cinzia Bigliosi. Saggio che, tra l'altro, in modo penetrante e pertinente mette in parallelo il romanzo della Sand e il capolavoro proustiano della 'Recherche'.

10 apr 2011

Gandhi e la nonviolenza nell'era atomica - Franco Toscani (Saggio - 1999)

"In queste ultime sue considerazioni spesso amare, Gandhi mostra appieno il volto inquieto e tormentato di chi si sa posto di fronte alla 'sconcertante complessità della natura umana' e non si fa illusioni sul cammino da intraprendere, irto di difficoltà e di ostacoli".

Questo brevissimo saggio illustra, con uno sguardo rivolto alla contemporaneità, la filosofia di un grande uomo che ha combattuto una ferocissima guerra senza mai affrontarla con la violenza. Se qualcosa è stato violento nell'opera e nelle azioni gandhiane, è stata la volontà dello stesso Mahatma, la grande anima, simile a quella di un santo, estrema forse, ma di sicuro non banale.
Il saggio si sofferma nel mettere in risalto la profondità della filosofia gandhiana, evidenziando le sottili, ma spesso abissali, contraddizioni delle azioni umane. E l'idea della 'nonviolenza' diventa la ricerca di se stessi, dello stare insieme con gli altri, della democrazia, dell'armonia in buona sostanza. Tutte riflessioni che porteranno il professore piacentino a un importante paragrafo finale che si interroga sul problema del male nell'uomo, dell'inevitabile ambiguità di quest'ultimo e quindi della difficoltà di esercitare fino in fondo la nonviolenza.
Certo, l'ascetismo del Mahatma, così come il suo pensiero religioso, è agli antipodi del mio pensiero, e ciò da sempre mi ha allontanato dal considerarlo un esempio 'filosofico'. Resta comunque, anche per me, un grande personaggio storico (figura data per scontata nel saggio) che però, come sottolinea l’autore, è stato un singolare e per certi aspetti moderno pensatore del '900. Se inoltre si paragona la sua idea della nonviolenza alla situazione che vede l'atomo uno strumento violento e di distruzione, il pensiero dell’uomo politico e leader nazionalista indiano ci illumina con la sua modernità.

8 apr 2011

Diario di scuola - Daniel Pennac (Autobiografia - 2007)

"Il sapere è anzitutto carnale. Le nostre orecchie e i nostri occhi lo captano, la nostra bocca lo trasmette. Certo, ci viene dai libri, ma i libri escono da noi. Fa rumore, un pensiero, e il piacere di leggere è un retaggio del bisogno di dire".

Un ormai maturo Pennac, già scrittore famoso nel mondo, già professore di lingua in pensione, ricorda la madre e una certa indisponenza di questa verso le difficoltà scolastiche del figlio. Problematicità serie però; lo scrittore francese si può definire (e si definisce) studente somaro, uno di quelli che non riescono in nulla e non capiscono nulla. Il libro ci appare una confessione quindi, la confessione di chi però, attraverso le fatiche dello studio e l’aiuto di pochi ma fondamentali insegnanti, ce l'ha fatta. È riuscito a essere qualcuno, a capire – ma senza supponenza - come ci si dovrebbe muovere tra gli studenti ‘somari’.
La prospettiva del libro si fa interessante: un Somaro con la S maiuscola, divenuto poi professore, si autoanalizza, e tra ricordi e riflessioni intelligentemente dosate si racconta per amore, l’amore di chi ha creduto nei propri allievi. Le due esperienze, quella di somaro e di insegnante, si fondono dunque, e la polpa che ne viene fuori è densa di ironia e di una selvaggia delicatezza che ti catturano e ti fanno pensare.
Pennac (Pennacchioni nel libro) - un Tom Sawyer contemporaneo, che sogna durante le ore scolastiche, che cerca l'avventura, che sente il bisogno della libertà, del riscatto, che avverte il suo disagio di essere in un mondo che non comprende -, nel raccontare la sua carriera di somaro, intrufola momenti della sua futura carriera da insegnante. E così le pagine scintillano di consigli, di digressioni sulla pedagogia, sulla passione, sul ruolo degli insegnati stessi, dei maestri. Ma come ci si riscatta da somaro? Scoprendo la passione, sembra suggerirci il professor Pennac. Le letture, i professori appassionati che non si limitano a seguire i programmi, i primi amori adolescenziali...
I capitoli, come piacciono a me, brevissimi, si concludono quasi sempre con una nota di struggente ironia o di ardente dolcezza o di melanconici ricordi. Solo raramente lo stile nelle descrizioni decade: singhiozzante, eccessivamente veloce, sincopato, che non sopporto granché. Ma quando il racconto diventa dialogo, quando diventa riflessione la punteggiatura si scioglie e il pensiero e l'ironia si espandono fino ai limiti del fascino.

Chissà se anch'io, tra vent'anni magari, avrò l'onore di essere chiamato per strada da un ex studente con una citazione di una mia lontana lezione dimenticata.

5 apr 2011

Allegro ma non troppo - Carlo Maria Cipolla (Saggio - 1988)

"L'aumento del consumo del pepe incrementò l'esuberanza degli uomini che, con tante belle donne d'attorno chiuse nelle loro cinture di castità, provarono un improvviso grande interesse per la lavorazione del ferro; molti si trasformarono in fabbri e quasi tutti si diedero a produrre chiavi".

Se, come credo, l'umorismo è dote di pochi (e quei pochi devono essere imprescindibilmente intelligenti), questo libro è il lavoro di uno di quei pochi, e ci diverte per il suo profondissimo umorismo (e quindi per la sua intelligenza). 
Composto da due non lunghi saggi, gli scritti di questo volume che il grande storico pavese ci lascia sono ingegnosi e certamente ironici. Soprattutto il primo direi: il saggio dedicato all'importanza e ai meccanismi del pepe nel Medioevo. Qui l’umorismo è indirizzato sul modo di fare storia degli storici. Persino le note a piè di pagina disegnano le linee del comico. Non scarseggiano nemmeno le battute sui colleghi e sulle definizioni che questi hanno dato sui concetti studiati. Non è un caso che per spiegare il Medioevo e il suo sviluppo, il grande storico analizzi le influenze che il pepe ebbe nell’arco dell’intero periodo, mostrando come si possa fare storia, pure dell’ottima storia, prendendo come pretesto qualsiasi fonte e qualsiasi aspetto economico e sociale. Cipolla si diverta (e diverte) nel descrivere (e nel prendere in giro) gli aspetti sociali ed economici che sarebbero stati condizionati dalla scarsezza o dall’abbondanza del pepe nella società europea, dalla caduta di Roma al Rinascimento. Il pepe avrebbe contribuito allo scontro nel Medioevo tra Occidente e Oriente (una spezia che faceva gola a molti europei, santi soprattutto, e che li indusse alle Crociate), e dopo alle guerre europee, specie quella dei Cent’anni, che avrebbero segnato per lungo tempo le sorti dell’Europa.  È, in breve, una velocissima e spassosissima digressione che abbraccia l'intera storia medievale che considera il pepe un elemento indispensabile per capirla. Come dire: una spolverata di pepe sta bene su ogni storia.
Ma l'umorismo, si sa, nasconde qualcosa di tragico. E la lettura delle pagine dello storico ci pone costantemente di fronte alla vacuità e alla tragedia della vita e del mondo che ci circonda. E si arriva così al secondo saggio, quello dedicato al tema della stupidità dell'uomo. Lo scritto vuole essere un antidoto contro l’imbecillità dell’uomo che tanto limita la nostra felicità. Per tentare di guarirci, Cipolla tratteggia delle leggi che manifesterebbero, umoristicamente e allo stesso tempo tragicamente, quanto la stupidità sia diffusa. Sembra quasi che nessuno sia escluso da momenti di simile malattia. Il saggio quindi propina delle leggi, universali potremmo dire, e, aiutato da grafici cartesiani, invita il lettore a stare attento, a evitare l’ottuso che è vicino a lui e che è dentro ognuno di noi. Lo stupido, colui il quale provoca un danno agli altri e pure a se stesso, è sempre attorno a noi, più di quanto possiamo immaginare.

Più volte ho riso (da solo) nel leggere questo piccolo gioiello di letteratura storica e nel farlo, tenacemente, ho avuto sempre in mente l’altro lato della moneta dell’umorismo: il senso di tragico che ci sta dietro.

3 apr 2011

Il sosia - Fedor Michàjlovic Dostoevskij (Romanzo - 1846)

"La notte era orribile, una notte di novembre umida, nebbiosa, piovosa, nevosa, gravida di flussioni, di raffreddori, di angine, di febbri di ogni specie e qualità possibili; a farla breve, di tutti i doni che elargisce il novembre pietroburghese!"

Storia di un pazzo - sul cui sfondo, lontani ma non troppo, scoviamo il Gogol' dei "Racconti di Pietroburgo" e l'Hoffmann de "Gli elisir del diavolo" - , il secondo romanzo dell'immenso scrittore russo ci delizia e ci annoia al contempo. Se da un lato il protagonista, Goljadkin, possiede tutte le caratteristiche del personaggio assillante, se è in nuce un tipico uomo dostoevskiano, contorto, silenzioso, incapace di mentire, prossimo alla follia, che ha una luce negli occhi simile a quella della 'verità', il romanzo, dall’altro, è gravido di pedanteria e di prolissità.
La storia non è complessa. Goljadkin, dopo essersi presentato con tutte le sue manie da un medico, dopo una disturbante notte di ballo, in preda al tormento, terribilmente, si ritrova di fronte un altro se stesso, identico in tutto e per tutto; un sosia appunto. Seguiranno altri incontri. Costretti a lavorare insieme, dopo un primo approccio amichevole, il sosia si rivelerà un approfittatore e uno spregevole personaggio. Ma soltanto il nostro eroe, angosciato, vede come suo identico l'uomo del suo terrore. Gli altri personaggi, pur vedendolo, colgono di uguale solo il nome e una certa somiglianza. Lo scontro quindi diventa inevitabile, ma ad avere la peggio è sempre il primo Goljadkin. Umiliato, offeso, deriso, scavalcato dalla prepotenza del sosia, il protagonista non riesce a reagire se non manifestando assillanti ripetizioni gestuali e ossessive manie. Il pensiero dell’eroe è espresso nei dettagli della sua insicurezza, paranoica, che pensa spesso anche alle più piccole facezie. E anche se la narrazione è in terza persona, lunghi momenti di prima persona ne caratterizzano la figura di Goljadkin. Il racconto si fa angosciante; i due si rincorrono, si odiano, e se anche si trovano innanzi alla possibilità di confrontarsi una volta per tutte, c'è sempre qualcosa (spesso architettato dal sosia) che intralcia, che li separa, e il primo è di continuo costretto a inseguire. Fino alla fine, fino a quando Goljadkin, invitato con uno stratagemma a un ballo, si ritroverà a fare i conti con la sua pazzia.

Se è da ammirare il modo in cui l'analisi della tortuosa psicologia di Goljadkin sia caratterizzata dalle ossessioni, dalle dimenticanze, dai lapsus (che interessano anche gli altri personaggi), il racconto, così ridondante, a tratti estenuante, appare meno accattivante degli altri capolavori dostoevskiani.

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