Presentazione


Presentazione

Questo spazio è dedicato agli appunti, alle briciole di recensione irrazionali, che colgo, da lettore appassionato e spesso rapsodico, nei miei viaggi verso la lentezza e la riflessione. Briciole di recensione irrazionali dunque.

Briciole perché sono brevi, a-sistemiche, frammentarie, come un certo spirito moderno pretende. Non sono delle vere recensioni. Queste hanno uno schema e una forma ben precisa, mentre i miei sono più che altro appunti colti sul momento, associazioni d’idee, giudizi dettati dalle impressioni di un istante, da una predisposizione d'animo subitaneo, da un fischio di treno... E perciò li definisco irrazionali. Perché sfuggono da un qualsiasi schema predefinito, perché sono intermittenti, perché nella scelta di un libro, per via di una congenita voracità, spesso non seguo linee e percorsi definiti dalle letture precedenti, ma mi lascio trasportare dagli ammiccamenti o dalle smorfie di sfida che un libro sulla mensola della libreria mi lancia.

È un modo insomma di coltivare, di giocare, di prendere vanamente in giro la memoria, per conservare, catalogare e archiviare frammenti di ricordi e suggestioni che un giorno, magari, potranno farmi sorridere e, perché no, commuovere.

22 dic 2011

Critica della tolleranza - Herbert Marcuse (Saggio - 1967)



"Ma la società non può esser priva di discriminazioni dove la pacificazione dell'esistenza, la libertà e la felicità stesse sono in pericolo: qui, alcune cose non possono venir dette, alcune idee non possono venire espresse, alcune politiche non possono esser proposte, alcuni comportamenti non possono esser permessi senza fare della tolleranza uno strumento per la continuazione della schiavitù". 

La tolleranza: ormai da qualche secolo tema sempre attuale. 
Anche Marcuse si è rivolto verso questo argomento, lasciandoci un’opera che a primo sguardo potrebbe apparire sovversiva. Con uno stile asciutto, quanto la logica dietro le osservazioni del filosofo, il punto di vista di Marcuse, però, è da contestualizzare. Le sue considerazioni, le sue critiche, infatti, si reggono solo se il tema fissato si svolge entro un momento storico particolare e definito: l’epoca della società capitalista occidentale. Secondo il tedesco la nostra società industriale non è tollerante, non è pienamente democratica, è una società che sopporta più che tollera: esistono ruoli e statuti che predominano su altri. Per cogliere l'essenza della tolleranza, dunque, dovremmo essere tutti uguali, ma fintantoché sussisteranno differenze non si potrà parlare di ‘tolleranza universale’. E allora sarà possibile, anzi sarà giusto e lecito essere in lotta, essere intolleranti. Specialmente di fronte alla regressione e ai pensieri fascisti - presenti nella nostra società dominata da chi possiede il potere dell'informazione.
Un libretto carico di spunti interessanti su una questione delicatissima, dove l'incontro può, e in alcuni casi deve, essere scontro. Ma è anche un tema in cui, tra le righe, si può cogliere la pericolosità degli estremismi e degli assoluti.

20 dic 2011

Gli ultimi giorni di Immanuel Kant - Thomas de Quincey (Biografia - 1854)


"Parlava di se stesso come di un ginnasta che avesse continuato per quasi ottant'anni a conservare l'equilibrio sulla corda tesa della vita, senza mai oscillare né a destra né a sinistra. E certamente, a dispetto delle varie malattie a cui la sua costituzione lo aveva esposto, egli manteneva ancora trionfalmente la sua posizione nella vita".

Trovo la filosofia kantiana altissima, ma allo stesso tempo povera di coraggio. Un filosofo dalle immense possibilità, figlio di giganti che prima di lui avevano forse scorto realtà troppo grandi, che tuttavia di fronte all’ultima verità ha cercato di nascondersi, rinunciandovi e trovando soluzioni al nulla e all'impossibilità che lasciano il tempo che trovano. Eppure è un mostro filosofico straordinario, dall'immenso fascino, e con esso bisogna confrontarsi. 
De Quincey, grande ammiratore della figura del filosofo di Königsberg, in questo scritto si occupa degli ultimi giorni di vita dell'autore de 'La Critica della Ragion Pura'. Nondimeno, sin dalle primissime battute, appare evidente come sia lo stesso scrittore inglese a mettersi in gioco, a dire la sua. Lo fa con un po' di arroganza (sono indicative a tal proposito le sue chiose), mostrando però un alto intuito e buona preparazione. De Quincey non è un testimone diretto. Trova le fonti per il suo libro dagli amici del filosofo (Wasianski su tutti). Testimonianze preziosissime queste, che però possono essere corrette da supposizioni e brillanti folgorazioni che lo stesso inglese riporta in lunghe e dotte note. 
Naturalmente il racconto è avvincente, i ricchi aneddoti riportati, soprattutto per le abitudini maniacali, sono divertenti e curiosi. Ma come potrebbe far pensare il titolo, il libro non si occupa solo degli ultimi giorni del filosofo. Dopo un breve excursus sulle sue abitudini, infatti, l'argomento principale diventa la vecchiaia, la lenta decadenza fisica e intellettuale che, poi, porterà alla morte uno dei più importanti autori della storia filosofica.

18 dic 2011

La marchesa di O..., Michael Kohlhaas - Heinrich Wilhelm von Kleist (Racconti - 1808/1810)


"Sulle rive della Havel, verso la metà del sedicesimo secolo, viveva un mercante di cavalli di nome Michael Kohlhaas, figlio di un maestro di scuola, uno degli uomini più giusti e insieme più terribili del suo tempo".

Iniziamo col dire che quest’ultima è stata una lettura lagnosa, quasi irritante direi. Del romantico tedesco, e in particolare del romanticismo tedesco in generale - filosofico e letterario -, non ho molta stima. La mia ammirazione nei loro riguardi è pressoché trascurabile. E questi racconti, di certo, non hanno contribuito ad aumentarla. 
Il primo racconto, ‘La marchesa di O…’, ha un solo pregio: un 'montaggio' narrativo pregevole, con flashback e incastri di una certa levatura. Ma la storia tende al ridicolo. Già dall’incipit, non male a dire il vero, ci catapultiamo in un mondo grottesco. La marchesa di O. pubblica sui giornali il suo desiderio di conoscere l’artefice della sua impossibile gravidanza. Il racconto diventa via via però tragico. Una tragicità che tuttavia presto muta e ritorna comica: coinvolta in uno scontro militare e salvata da un conte russo che presto si innamora di lei, la scoperta di essere incinta, il successivo ripudio da parte del padre, l’assurda verità sullo stato di gravidanza (mentre beatamente dormiva, la giovane donna era stata inavvertitamente posseduta da un cacciatore!), il ritorno agli affetti della famiglia e infine il matrimonio con il conte russo. Come si vede, il racconto appare buffissimo, inoltre è straripante di lacrime mielose e svenimenti avvilenti. Un tipico racconto romantico, ma di certo non la descrizione di emozioni e sentimenti che si avvicinano al vero. Altro che realismo kleistiano, qui si sfiorano le vette più alte dell'assurdo!
Con il secondo racconto, invece, i momenti di potenza espressiva e meditazione non mancano. Specialmente nella prima metà della storia. Siamo nel '500, Michael Kohlhaas, un onesto e giusto mercante di cavalli, per un estremo senso della giustizia diventa un rivoltoso e persino un assassino. Un’ingiustizia subita (uno scherzo maligno più che altro), una giustizia formale che non funziona, una catena di altri eventi nefasti e il desiderio estremo di ottenere verità e imparzialità, porteranno il mercante di cavalli a vendicarsi dei torti subiti. Diventa così un ribelle, assolda addirittura altri uomini, e al comando di un piccolo esercito mette a soqquadro una regione tedesca e cerca vendetta. Poi, prima di ottenere soddisfazione, la calma. Si inseriscono nella storia altri personaggi minori (persino Lutero) e il racconto diventa un lungo e noioso preparativo al processo che alla fine vedrà il protagonista condannato a morte.
Solo un rigo sullo stile: la sintassi è verbosa, ricolma di incisi non sempre equilibrati; anche questo ha contribuito…

14 dic 2011

Il partigiano Johnny - Beppe Fenoglio (Romanzo - 1968)


"Le case borghesi erano sigillate come sepolcri, l'ingresso vi era rigidamente e tacitamente precluso dal terrore medesimo degli occupanti, e Némega approvava la separatezza dei borghesi, per non indurre nei suoi uomini nostalgie, reminescenze, comodità... E fuori, fischiava eternamente un vento nero, come originatesi dalla radice stessa del cuore folle dell'umanità".

Johnny, studente piemontese appassionato di letteratura inglese, decide di raggiungere le Langhe per arruolarsi tra i partigiani. Dopo alcune azioni con i garibaldini, Johnny decide di unirsi ai badogliani. Tra numerosi racconti di operazioni partigiane - tutte dal sapore amaro, con le vittorie e le sconfitte raccontate senza esaltazione o eccessiva delusione - il partigiano, l'antifascista, il fautore della libertà si mette a nudo nella sua complessità di uomo. E la vitalità dei giovani, il senso dell'avventura, la riproduzione tersa della disumanità umana e al contempo della condivisione, emergono dalla narrazione delle vicende del protagonista. Attributi questi che, così sembrerebbe (il romanzo è incompiuto), lo porteranno alla morte. Un romanzo, dunque, antiretorico e antiepico, di formazione, di crescita – una crescita non compiuta evidentemente - nel quale alcuni valori si scoprono raggiungibili solo per mezzo del male. 
Seppur scritto in terza persona (scelta che in un romanzo del genere non riesce a coinvolgermi), l'analisi introspettiva del protagonista è notevole. Tra un’indecisione e l’altra, tra una decisione e un'altra che ne smentisce la precedente, Johnny appare luminoso nel suo conflitto interiore. Alla ricerca del senso della guerra, della libertà, il giovane non trova che opposte emozioni, contraddittori pensieri altalenanti. Tuttavia la scelta della terza persona, se da un lato ci permette di cogliere più distintamente le difficoltà psicologiche, dall’altro non permette di assaggiare appieno i sentimenti del personaggio principale. In Meneghello, ad esempio, si ‘sente’ l’anima del protagonista; qui, invece, si guarda (e spesso non si osserva) un personaggio in balìa degli eventi che sì lo fanno maturare, ma senza che la progressione del sentimento sia descritta, sviscerata.
Probabilmente per via dello stile, a tratti surreale, a tratti asciutto, a tratti ancora sovrabbondante di fastidiose quanto sconcertanti espressioni inglesi sparpagliate sulle pagine come superflue macchie nere su un dipinto realistico (espressioni che nella seconda parte del romanzo, per fortuna, diventano sporadiche, meno invadenti, meno sconvenienti), non è stata una lettura appassionante. A parte, però, per i continui neologismi e per l’impiego di verbi con uso metaforico: sorprendenti, disorientanti, utili.
Anche la costruzione narrativa delle azioni militari è poco trascinante. Manca di pathos, del calore delle emozioni. 

3 dic 2011

Stanley Kubrick Barry Lyndon - Philippe Pilard (Saggio – 1990)


"'Barry Lyndon' ha richiesto 250 giorni di lavorazione in Irlanda, Gran Bretagna e in quella che all'epoca era ancora la Repubblica Democratica Tedesca. Il costo totale, previsto in partenza in 2 milioni e mezzo di dollari, arriverà a toccare gli 11 milioni. Il film vince il British Academy Award per la miglior regia nel 1975 e, l'anno successivo, quattro Oscar per la fotografia, la scenografia, i costumi e la miglior colonna sonora non originale. Accolto tiepidamente in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, 'Barry Lyndon' riscuote buoni successi di pubblico in Francia, in Italia e in altri paesi, anche se, complessivamente, non riesce a recuperare l'investimento iniziale".

Saggio per certi versi più analitico, seppur più discorsivo, del precedente su 'Shining', prova a mostrare come un film, oltre che assumere con il tempo la connotazione di 'classico', possa rappresentare la Storia in immagini e come essa possa rivivere nelle violente essenze dell'uomo. Descrivere l'uomo medio, perseguitato dal fascino del potere ma che è destinato alla sconfitta (un uomo non necessariamente del XVIII secolo), è lo scopo dell’immenso regista. Però, fa notare il critico cinematografico con inevitabili e robusti richiami, che non sono tanto i dialoghi a tratteggiare la psicologia e il tormento dei personaggi, quanto la scelta dei commenti musicali, delle magnifiche scenografie e delle pittoriche scelte fotografiche. Nell'analisi, il saggio si sofferma spesso a confrontare il film del 1975 con le altre pellicole del geniale cineasta, mettendone così in luce la ricerca morbosa dei dettagli. Ed è ovvio che il film non sia facile, di certo non commerciale, eppure è grazie a ciò che ha lo spessore dell'opera indistruttibile, duratura.

Un film vigoroso secondo Pilard, che è grande perché possiede perfino le qualità espressive del cinema muto.

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