Presentazione


Presentazione

Questo spazio è dedicato agli appunti, alle briciole di recensione irrazionali, che colgo, da lettore appassionato e spesso rapsodico, nei miei viaggi verso la lentezza e la riflessione. Briciole di recensione irrazionali dunque.

Briciole perché sono brevi, a-sistemiche, frammentarie, come un certo spirito moderno pretende. Non sono delle vere recensioni. Queste hanno uno schema e una forma ben precisa, mentre i miei sono più che altro appunti colti sul momento, associazioni d’idee, giudizi dettati dalle impressioni di un istante, da una predisposizione d'animo subitaneo, da un fischio di treno... E perciò li definisco irrazionali. Perché sfuggono da un qualsiasi schema predefinito, perché sono intermittenti, perché nella scelta di un libro, per via di una congenita voracità, spesso non seguo linee e percorsi definiti dalle letture precedenti, ma mi lascio trasportare dagli ammiccamenti o dalle smorfie di sfida che un libro sulla mensola della libreria mi lancia.

È un modo insomma di coltivare, di giocare, di prendere vanamente in giro la memoria, per conservare, catalogare e archiviare frammenti di ricordi e suggestioni che un giorno, magari, potranno farmi sorridere e, perché no, commuovere.

30 dic 2017

La fuggitiva - Marcel Proust (Romanzo - 1925)

"Non bastava chiudere le tende, io cercavo di chiudere gli occhi e le orecchie della mia memoria per non rivedere quella striscia arancione del tramonto, per non udire quegli invisibili uccelli che si rispondevano da un albero a un altro tutt'intorno a me che abbracciavo, allora, così teneramente la creatura che ora era morta. Tentavo di evitare quelle sensazioni suscitate, la sera, dall'umidità delle foglie, dalla salita e la discesa delle strade a dorso d'asino. Ma già queste sensazioni mi avevano riafferrato, ricondotto abbastanza lontano dal momento presente affinché l'idea che Albertine era morta avesse tutto l'agio e lo slancio necessario per colpirmi di nuovo".

Nel penultimo capitolo di quella immensa cattedrale che è la Recherche, i principali temi trattati sono quelli della fuga, della conseguente sofferenza amorosa e dell'oblio come mezzo per continuare a sopravvivere. Albertine, infatti, è scappata da Marcel e dalla sua opprimente gelosia. Dopo una fugace e irrealistica fase di indifferenza, in un raffinato gioco di mal celate finzioni psicologiche, le reazioni angosciose del narratore alla fuga del suo ossessionante amore sono molteplici. Fino a esplodere in un nuovo tormento di possesso e a riprovare di convincerla a ritornare da lui, anche con l'intermediazione velleitaria di Saint-Loup. Poi, però, il dramma: Albertine, che desiderava tornare da Marcel, cade da cavallo e muore. Ecco il dolore dunque, un dolore che intorpidisce il protagonista, che gli spacca l’anima, che lo porta a non vedere la realtà per quella che è, che lo spinge a non riconoscere più la vera Albertine e a minimizzare ogni tradimento, persino di fronte al ricordo delle sue evidenti trasgressioni (per altro confermate da Andrée, amica e amante, già fanciulla in fiore, dei due). 
Eppure, con il tempo, i ricordi, i dettagli, gli attimi della loro storia sono ripercorsi sotto la luce del dolore e via via che questo è analizzato, lentamente, il processo interiore del narratore spegne quella luce e quelle illusioni, fino ad arrivare all'indifferenza. Ecco dunque il tempo, il suo scorrere che porta all'oblio, alla distruzione, all'attenuazione del dolore. È un percorso interiore di riflessione sul passato, letto sotto mille aspetti diversi, sotto mille prospettive e occhi diversi. Il narratore vi trova luci, soluzioni, illusioni, ma Albertine, nella sua vera essenza gli sfugge... In questa minuziosa cronaca di guarigione, Albertine muore dentro l'animo di Marcel, adagio, ma inesorabilmente. Tutto ciò trova conferma quando il narratore incontra la bionda Gilberte Swann, l'amore adolescenziale che tanto lo aveva fatto soffrire. Il confronto allora tra le due storie è inevitabile, e il loro parallelismo è evidente nell’analisi del dolore; quello per la rottura con Gilberte è infatti solo un lontanissimo ricordo, così come quello per Albertine ormai è un incubo svanito.
Marcel allora decide, finalmente, di visitare insieme alla madre la tanto agognata Venezia. Un viaggio che rappresenta, in fondo, la fine della sua giovinezza e il distacco dalla madre. E ciò che gli si svela tra i vicoli labirintici di una città incantata sono nuove scoperte involontarie, le più belle: Albertine è definitivamente dimenticata. Anche il senso di colpa maturato, mentre visita il Battistero, sparisce, e si riconcilia con se stesso. Ma, durante il soggiorno, come un fulmine inaspettato, arriva un telegramma: Albertine è viva e vuole incontrarlo! Eppure, nell'indifferenza raggiunta, Marcel non si interessa dell'invito, e solo mentre deve lasciare Venezia, si accorge dell'errore: il telegramma, infatti, è di Gilberte. Quest’ultima si sposa con Saint-Loup, e di ritorno in treno Marcel ripercorre la storia del suo amore per la figlia di Odette e Swann. Poi la scoperta dell’omosessualità di Saint-Loup, come suo zio, il barone Charlus. Nelle ultime pagine si ritorna dunque al (noioso) pettegolezzo, insomma un ritorno alla normalità che conferma ancora una volta la guarigione definitiva del narratore.
Un capitolo esaltante, una premessa per la conclusione di una lunga ricerca di un tempo che occorre ritrovare…

16 dic 2017

La congiura dei somari - Roberto Burioni (Saggio - 2017)

"Il nostro intuito non è sufficiente a stabilire un rapporto di causa-effetto. Per stabilirlo ci vuole la scienza, con i suoi numeri, il suo metodo, il suo rigore e soprattutto la sua statistica: se il vaccino fosse la causa o in qualche modo un elemento favorente l'autismo, questo si verificherebbe con maggiore frequenza tra i bambini vaccinati rispetto a quelli che non lo sono. Così non è: l'autismo ha frequenza identica tra i bambini vaccinati e non, anche in soggetti particolarmente a rischio come i fratelli dei bambini autistici. Insomma, la nostra mente ci ha fatto sopravvivere in ambienti ostili come erano quelli ai tempi delle caverne e funziona magnificamente, però non è perfetta. Talvolta cede alla lusinga del raglio del Somaro e si sbaglia: dobbiamo saperlo e, per trarre alcune conclusioni, dobbiamo affidarci alla scienza e ai suoi numeri che ci salvano da pericolosissimi errori, quali usare un condizionatore con la finestra aperta o - molto peggio - non vaccinare nostro figlio immaginando rischi che non esistono". 

Se una volta le tesi più astruse erano discusse solo al bar o in piazza, oggi, grazie a internet, chiunque può scrivere articoli dalle sembianze scientifiche, può richiamare quello studio o quell'altro, senza tuttavia passare dalla verifica della comunità scientifica e così, pericolosamente, quegli articoli trovano spazio, si diffondono velocemente, danno credito alla fantasia, fino a raggiungere livelli insopportabili. Siamo nell'era della post-verità e la lotta tra la verità riconoscibile e la menzogna altrettanto dimostrabile si fa con i libri, con le competenze, con le verifiche, con il metodo scientifico.
Il libro del virologo Burioni, dal titolo provocatorio e dall'emblematico sottotitolo ("perché la scienza non può essere democratica"), è ferocemente contro l'ignoranza spacciata per verità così diffusa oggi. Quanti pur non essendo esperti del settore si preservano di saperne di più degli esperti? In quanti sono convinti di possedere la certezza dopo aver letto un articolo su internet, pur senza averlo verificato con metodo? In quanti si sono confrontati con un esperto che invece ha sudato e sofferto prima di arrivare a una conclusione? Il confronto tra gli esperti del settore e chi non lo è non dovrebbe essere nemmeno pensato come possibile, in un paese civile, eppure Burioni evidenzia come questo spesso accada in Italia. È vero, le conclusioni in scienza non sono mai definitive (e forse è questo che destabilizza della scienza...), ma sono pur sempre piccoli frammenti di verità, e l'alternativa oscurantista è sempre fortemente pericolosa.
Nel libro (quasi un'appendice al precedente sui vaccini), in cui sono numerosi gli esempi di posizioni antiscientifiche che hanno causato morte e dolore, la riflessione sulla scienza è semplice; si sottolinea la sua evoluzione, il suo essere sempre aggiornata alla luce delle nuove scoperte e dei nuovi risultati dimostrati con quel linguaggio della natura che è la matematica. È insomma un testo contro tutte quelle pseudoscienze (astrologia, naturopatia, omeopatia, contro tutte le discipline olistiche tanto di moda oggi che fondano i loro principi sull'indimostrabile o sul falso - consiglio sempre di leggere Popper...) che, alla prova dei fatti, ovvero nel confronto con la verifica sperimentale, falliscono sempre miseramente. L'approccio magico ha avuto il suo spazio per millenni, non ha ottenuto alcun risultato, se non l'abisso; non diamo credito a questo rischioso tentativo di risurrezione!

8 dic 2017

Discorso dell'ombra e dello stemma - Giorgio Manganelli (Saggio - 1982)

"La parola parla, in primo luogo, al proprio doppio; e dal doppio vengono parole alla parola, e ciascuna di queste parole ha ombra e doppio. Dunque la parola tende ad una assenza di limiti, ad una infinità, una disponibilità che non può avere conclusione; e di fatto non ha alcuna possibile conclusione; si disegna come un itinerario che non conduce in alcun posto, e la sua assenza di meta fa parte della sua definizione. La parola, parlando al proprio doppio, occupa uno spazio mentale, disegna un disegno, e dunque si appropria di una dimensione".

Che valore ha la letteratura? Davvero deve interpretare il mondo? Deve esprimere un'idea? O è solo menzogna, delirio e falsa costruzione? La paradossale riflessione manganelliana si propone di dimostrare quanto la parola scritta e letta sia, in fin dei conti, solo un ulteriore strumento per mentire. Inizia considerando il tempo in cui la letteratura non c'era, mentre, però, il mondo e gli uomini vivevano comunque nel loro falso ordine. Poi la nascita di questo mostro, della parola scritta, e quindi la nascita di scrittori, lettori, recensori, redattori di epitaffi, editori, insomma tutti coloro che hanno un rapporto diretto con i libri, tutti della stessa stirpe di dementi, incapaci di accorgersi della loro inutile falsità… Ecco perché lo scritto recita un sottotitolo tanto provocatorio quanto illuminante: "del lettore e dello scrittore considerati come dementi". In questa prospettiva, il mondo, l'universo tutto è menzogna, così come gli uomini che ne parlano e soprattutto che ne scrivono. Grazie alla letteratura impariamo a mentire. E il bisogno di scrivere e di leggere è malattia, necessario sì, ma pur sempre malattia; ha come unico scopo quello di disorientare e angosciare, di cogliere il principio doppio e antitetico delle cose, la coincidenza degli opposti, in cui tutto e nulla stanno a braccetto. La parola in sé è duplice: è tenebra e luce insieme. E non è un caso che Manganelli citi più volte i miti di Dioniso ossimorico e Apollo luminoso, o Narciso indifferente ed Eco disgraziata. Lo stemma e l'ombra sono la stessa parola, luce e ombra, parole e silenzi diventano sinonimi; ogni voce è bilanciata dal suo opposto e tutto si regge in un vorticoso e abissale fluire.
I trentuno brevi capitoli (con titoli che seguono la numerazione ma ciascuno con un carattere grafico diverso) formano un mostro multiforme. Sono tante voci dello stesso fool shakespeariano, dello stesso giullare impertinente che si diverte a prenderci in giro (come suggerisce lo stesso autore nell'autorisvolto al termine dei capitoli; quasi una meta-metaletteratura...).

Voluttuoso e dissacrante, con uno stile prezioso, fatto di continue allitterazioni e di lunghi elenchi, che tracima di barocchismo, è un libro in cui tutto scorre in modo provocatorio, antitetico, ipotetico, avversativo. È un libro letterario, metaletterario, ricco di teoria e di retorica, non facile, ma ingegnoso e delirante.

1 dic 2017

Lamento di Portnoy - Philip Roth (Romanzo - 1967)

"Ma vede, il sale in zucca è solo un altro nome per definire le mie paure! Il sale in zucca è né più né meno l'eredità di terrore che mi porto appresso dal mio ridicolo passato! Quel tiranno, il mio superego, dovrebbe essere impiccato, quel figlio di puttana, appeso fino alla morte per i suoi fottuti stivali da truppe d'assalto!"

Alexander Portnoy è un uomo di cultura e di successo sociale; è responsabile di un dipartimento dell'amministrazione di New York. Eppure non riesce a trovare una stabilità emotiva, un'ordinaria normalità, che lo possa portare a definirsi equilibrato alla luce della coscienza. Cerca allora aiuto nello psicoanalista dottor Spielvogel, al quale vomita, in una confessione vera e allo stesso tempo amara, tutte le sue idiosincrasie e le sue nevrosi. Si racconta nelle perversioni più intime e sembra che le sue ossessioni, il suo essere erotomane in particolare, siano da attribuire all'educazione.
Figlio di una comunissima famiglia americana ebrea, Portnoy, infatti, vive un'infanzia dedita alla perfezione e all'ordine. Il ricordo della famiglia e della madre, eccessiva, invadente, ebrea, conduce il narratore-protagonista a riflettere sui feroci sensi di colpa per ogni azione non perfetta (ovvero non convenzionale) che compie. Ogni mossa che si allontana seppur minimamente dalle consuetudini educative porta inevitabilmente al senso di colpa e alla frustrazione, e da qui i perturbanti rimorsi per il tempo passato nascosto a masturbarsi, il desiderio frenetico del sesso, la spasmodica ricerca di donne da penetrare per scovare la loro essenza di americane cristiane. La pressione dei genitori è insostenibile, l'assenza di libertà e i divieti che una famiglia bigotta può imporre trasformano la materia del giovane intelligente figlio in un intelligente mostro adulto. La rabbia che cova dentro, che sfiata solo parzialmente in tutte le relazioni sessuali solo per ritardare il momento della deflagrazione finale, in un modo o nell'altro si traduce in scompensi emozionali, in egoismi, in instabilità, in sensi di colpa, in nevrosi, in vergogne che Portnoy si porta dietro dall'infanzia.
Nel procedere del racconto, i piani temporali si mescolano, i ricordi si sovrappongono e il monologo diventa quasi inesauribile flusso di coscienza, dove un racconto porta a un altro, un dettaglio porta a una digressione (non è un caso che Kafka e i suoi personaggi siano citati più volte).
In questo gioco di rimandi, sono frequenti le storie sulla Scimmia, la ragazza erotomane anche lei, con la quale Portnoy ha avuto l'avventura più lunga e più ricca. Ma la Scimmia, sì erotomane, sì esibizionista, sì contraltare della madre, è alla ricerca di un amore della vita e per la vita, di una normalità che il protagonista non può offrirle. Presto, inevitabilmente, quando il gioco appassionato del sesso si esaurisce, anche lei sarà abbandonata, come tutte le altre donne. 
Portnoy è un uomo rinchiuso nella caverna scavata con i picconi dell'educazione e della società, che però sente il bisogno di uscirne, vivo o morto che sia, ma pur sempre di uscirne, anche tramite una seduta psicanalitica. In pagine spesso esilaranti, il racconto sottolinea come un'educazione che vuole formare il bene apparente, con l'ossessione del bene apparente, possa portare o alla ribellione che guarisce o alla deviazione mentale che stordisce.
Un libro che scorre fluido, un fiume in piena di ricordi, di rabbia, di sensi di colpa. Un intelligente manuale, romanzato, di pedagogia.

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